Benni di Francia – Ben detto!

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Dall’Ambasciata di Francia, che voleva assolutamente andare a visitare, Banana percorre la calma piatta di Piazza Farnese: un quadrato fatto di palazzi barocchi dalle linee curve e dalle bianche facciate borghesi. Banana scatta poco convinto alcune fotografie alle due fontane della piazza che manda per direttissima sulla chat WhatsApp di Fanny. Ci sono solo uffici diplomatici e poche anime in giro, gli pare. Eppure, l’elettricità è nell’aria, basta percorrere un vicolo.

Appena un isolato e viene infatti travolto dal tumulto di Campo de’ Fiori. In mezzo ai suoi tanti turisti, forse per la prima volta, Banana si sente più romano che straniero.

I ristoranti tracimano di bocche sedute di fronte ai loro drink, di occhi distratti gettati sulla piazza, sotto lo sguardo austero di Giordano Bruno, tra i maxischermi che proiettano partite di calcio inglese o il Roland Garros, tra le bottigliette di birra dei ragazzini pronti a far bagarre allo scoccare della mezzanotte. La birra scorre fuori dalle bottigliette che scorrono per terra, e l’alcol si perde sui sampietrini annaffiati a loro volta dagli idranti della municipale che ancora adesso, con un colpevolissimo ritardo tutto italiano, stanno spruzzando via la puzza e i rimasugli del mercato della mattina.

Il locale a cui l’aveva invitato Lanterna è uno scantinato storico – e forse clandestino – in Via del Pellegrino, scoperto a pochi passi dall’Arco degli Acetari.

L’ingresso annuncia quello di una normalissima vecchia locanda, ma con lo scendere due piani di scale sottoterra si accede a un ambiente più intimo e caratteristico.

È buio. La musica è soffusa. Il volume è perfetto per perdersi in quell’atmosfera ricercata che solo la voce di Tom Waits e le note di piano possono creare. Soltanto il bere e magari il fumare potrebbero migliorare quel quadretto di incantesimo pagano.

There’s a place for us, A time and place for us…

Banana si avvicina al bancone dei liquori, dà uno sguardo alla parete illuminata, vorrebbe un whisky ma preferisce cominciare con una birra. Chiede una semplice lager bock e si accomoda sulla pelle porpora di un divano Chesterfield adagiato all’angolo.

Lanterna ancora non si vede, eppure si erano sentiti qualche ora prima e si era raccomandato di arrivare in tempo per l’inizio della serata. Lo Slam, il Poetry Slam, sarebbe dovuto iniziare alle ventitré in punto ma siamo già a un quarto a mezzanotte e né Lanterna, né nessun altro si vede ancora salire sopra il palco. Banana beve la pinta in attesa di assaggiare il suo ben più strutturato whisky scozzese e anche se si sta chiedendo se non avesse alla fine sbagliato posto, continua a farsi coccolare dalla voce spezzata di Tom Waits senza alcuna intenzione di lasciare semmai il locale, sebbene sia ancora mezzo vuoto.

Hold my hand and we’re halfway there, Hold my hand and I’ll take you there.

Lanterna arriva a mezzanotte passata scendendo le scale insieme ad almeno una quindicina di persone. Dal tono goliardico con cui arrivano si capisce che siano stati finora a bere tutti insieme in strada, oppure in qualche altro pub, enoteca o distilleria dai prezzi più a buon mercato. Appena lo vede Lanterna, ridendo, gli grida qualcosa in francese, che Banana però non capisce. Segno che non fosse propriamente in francese. Di contro, lui si alza e gli si avvicina per salutarlo. Lanterna gli presenta distratto a uno a uno i suoi amici: sono poeti venuti a dar vita alla serata dello Slam. Banana percorre quelle mani flosce ripetendo e scandendo il suo nome, al ché qualcuno gli chiede se volesse partecipare e leggere anche lui, se avesse preparato un pezzo, una poesia, una filastrocca, una barzelletta, una confessione, una preghiera… una qualsiasi cosa scritta o da salmodiare a memoria per l’occasione. Il Poetry Slam è open mic. A microfono aperto. Basta comunicarcelo.

– Sei sicuro Benni, – insiste Lanterna, – che non ti sei portato niente?

Banana, per un attimo, è tentato. Davvero però non ha con sé nulla da leggere; non è uno scrittore “affermato” come loro e non è, in tutta fede, neanche un vero poeta. Perfino l’idea di salire sopra un palco lo mette a disagio. Sente l’ansia salirgli di colpo e la testa annebbiarsi. Potrebbe forse inventarsi qualcosa in francese, facendo finta di improvvisare: il fascino esotico d’oltralpe è sempre apprezzato da queste parti, pure se finisse per leggere gli ingredienti di un pacchetto di biscotti o le concentrazioni chimiche delle sostanze presenti in un tubetto di shampoo. Ma forse no, non è davvero il caso. Non questa volta. (Dove l’avrebbe trovato un tubetto di shampoo?). À la prochaine fois, pensa.

– Preferisco ascoltare voi. Leggo alla prossima. – se avesse padroneggiato maggiormente la lingua si sarebbe spinto oltre con una battutina che lanciasse il suo guanto di sfida, come a dire Per questa volta vi è andata bene così.

Mentre i poeti salgono sul palco e la musica si spegne di colpo, Banana si avvicina al bancone e indica un whisky torbato che a Parigi avrebbe pagato un occhio della testa.

Il presentatore prova il microfono e lo fa scandendo a sua volta una cosa che ha scritto per l’occorrenza. È un brano – non proprio una poesia – a verso libero: parla di Gesù, delle prostitute (nella fattispecie di Maria Maddalena) e della domenica di Pasqua. Ha un ché di sacrilego. Tutti intorno ridono mentre Banana capisce sì e no mezza battuta, ne comprende però il vezzo blasfemo che capisce andare molto in voga. Il tono è scanzonato. Meglio così.

I poeti si alternano con le loro odi alla malinconia e al libero cazzeggio finché non è il turno di Lanterna, che a quanto pare è un pezzo grosso del giro. L’amico si schiarisce la voce, saluta una ragazza del pubblico che gli sorride di rimando, e finalmente recita un passaggio lunghissimo – quasi cinque o sei minuti – ripreso da un suo fantomatico-mai-realizzato-mezzo-romanzo-esistenzialista che cita a spada tratta, e in modo neanche troppo velato, il suo grande amore letterario: John Fante.

Tutti applaudono e Lanterna, narciso, fa pure l’inchino.

Si atteggia a esperto.

Ma ci sono voluti i francesi per riscoprire le opere di un italoamericano come Fante, pensa Banana tra sé. Ci sono voluti i francesi (ma in verità anche Bukowski) per togliergli di dosso la polvere dell’infamante oblio che la letteratura gli aveva ingratamente destinato. È stato un lungo cammino della polvere nella polvere dei tempi, quello di Fante. Anche se, levando proprio Ask the Dust e il film sul cane Stupido – film cult francese che dipinge la città di Roma come un’improbabile Eldorado, – Banana non sapeva granché di quello che per Lanterna era, invece, praticamente un dio. Fante era diventato per i suoi connazionali un classico letterario di una potenza incredibile, un autore dalla potenza narrativa ineguagliabile, da potersi paragonare ai più grandi del Novecento e non solo. Per questo Lanterna forse era francese e non lo sapeva. Leggiti anche La confraternita dell’uva gli aveva detto giorni prima sull’argomento: Non potrai mai diventare un vero scrittore se non conosci i suoi libri. Nonostante non abbia mai avuto particolare simpatia per le chiese di alcun tipo, né per i commenti troppo idolatrici e faziosi, Banana si era ripromesso comunque di dargli ascolto.

Lanterna era uno tosto e Roma gli stava dando quella scossa al cuore, allo stesso tempo di natura elettrica e nostalgica, che aveva sentito soltanto negli anni dell’adolescenza, quando, prima di cominciare a lavorare e a fare, suo malgrado, le cose sul serio e come andavano fatte, credeva potesse realizzare il suo primo grande sogno, inconfessabile da sempre: diventare uno scrittore. Aveva letto i classici della letteratura americana in uno solo anno, perché erano quelli che richiamavano la sua più viva attenzione. Era partito da Jack London e da alcuni libri consigliatogli da un prozio che aveva tentato anni prima, senza successo, la carriera dello sceneggiatore: Martin Eden, Il richiamo della foresta, Il viaggiatore delle stelle. Banana aveva divorato tutto Hemingway perché non si poteva fare altrimenti, aveva letto tanto di Steinbeck e qualcosa di Miller e di Kerouac, e nel frattempo cominciato a buttare giù taccuini di appunti infiniti… finiti chissà dove. Non erano ancora maturi per lui però i tempi dello scrivere. Sulla strada, Furore, La valle dell’Eden, Big Sur, Il dottor Sax (di cui non aveva capito un’acca), Festa mobile, Il vecchio e il mare… si era immerso nelle contraddizioni della generazione perduta fino a viaggiare per le strade dell’America beat. Sì, ma avrebbe dovuto recuperare Fante.

Intanto sul palco sale un poeta che chiamano Conte. Ha la voce scavata e recita qualcosa in modo sincopato: alterna parole in italiano a passaggi interi che Banana capisce essere in dialetto romanesco. Parla dell’amore, del bere, delle amicizie che si perdono e degli attacchi di cuore. Banana sorride, ma forse, stavolta, il tema è serio.

Poi ha d’improvviso come un flash: si ricorda di Sorcio e di una notte d’estate a Nanterre.

Sorcio, che crolla nella palestra dell’Ateneo adibita a coktail-lounge.

Variazione sul tema.

Quella notte in cui si apre un vuoto pneumatico di corpi tutto intorno a lui, esattamente un secondo prima che l’osso sacro del suo amico vada a schiantarsi contro il pavimento, in una sorta di quadrato magico, una piccola Place des Vosges, come un vuoto pneumatico riempito senza riguardi dal suo snello metro e ottanta. Fra le smorfie di partecipazione e le grida sorprese degli studenti e delle studentesse dell’Ateneo, Sorcio… che crolla. Fra le stroboscopiche, il fango di long drink rovesciati e impronte di scarpe, e i tagliandini smarriti del guardaroba, Sorcio che sviene, vomitando.

Lui va al tappeto.

Si schianta, si sdraia, s’allunga. Crolla.

Eppure, Sorcio ballava.

Si dimenava e muoveva le braccia a tempo, ondeggiava col bacino, sudato e sorridente, lanciava occhiatine alle studentesse con gli occhiali quasi appannati dall’umidità di corpi che le circondavano, quell’aria carica d’ormoni, pesante, opprimente. Sorcio sviene. Piega prima le gambe. Poi, gli precipita veloce il bacino, più pesante del resto del corpo, trascinandosi tutto dietro. Banana lo ricorda perché è stato un momento cruciale per la sua già precaria carriera accademica, finita in quel modo, e per quella del suo amico, concentratasi esclusivamente in quel party vissuto da clandestino.

Nel cadere la schiena di Sorcio si piega e forma una sorta di mezzaluna, e quando tocca terra è ancora piegata, tanto che fa un leggero rimbalzo, di nuovo un ondeggiare, come una specie di storpio cavalluccio a dondolo. Quando alla fine il movimento cessa, restano solo il suo corpo sudato e crollato nel vomito, e il bicchiere di sangria volato qualche metro più in là, fra le gambe immoderatamente snelle e sui pantaloni bianchi della dottoranda di turno. Sorcio non poteva ancora rendersene conto ma le sue, di gambe, fluttuavano a venti centimetri da terra.

Le mani affusolate di Banana stringono e sollevano quelle robuste caviglie prive di sensi. Un altro paio di mani, trovatosi lì per chissà quale motivo, gesticola ora nervosamente intorno al buio dei suoi occhi caprini, allontanando i corpi bisbiglianti e incalzanti di tutti gli studenti e delle studentesse istintivamente accorsi a togliergli il respiro.

La grande palestra adibita a cocktail-lounge non era mai stata così silenziosa durante una festa Erasmus. Da quando Paris X – Nanterre aveva scoperto la meraviglia della fête de l’intégration, nessuno era mai crollato nelle serate a quel modo, fra le stroboscopiche di un coktail-lounge. Nessuno.

Sorcio, da imbucato qual era, rappresentava però, in quel momento, il proverbiale Signor Nessuno. E Banana il più sfigato di tutti.

E così lo hanno saputo gli studenti e le studentesse, tutti gli Erasmus divertiti, i professori presenti, gli addetti alla sorveglianza e persino il Magnifico Rettore. Lo hanno saputo tutti i diversi sottoposti dell’Ateneo di ogni grado e specie. Lo hanno saputo le gambe immoderatamente snelle e i pantaloni bianchi della dottoranda che subito ha denunciato l’intrusione di quel tizio bislacco e le mani affusolate di Banana… che sarebbe stato presto considerato l’unico responsabile di tutto. Chi fosse Sorcio – e di che cosa fosse capace – non lo sapeva soltanto il pavimento di quella palestra adibita a cocktail-lounge. Pavimento, che ora lo sapeva.

Dissolvenza a nero.

La serata romana riprende la sua via a ritroso dai ricordi, scorrendo per Banana in modo assai diverso da quella. Non è grande letteratura quella che ha attorno, ma i brani presentati hanno il loro perché. E l’atmosfera è genuina.

Alla fine del carrozzone, sembra non esserci un vero e proprio vincitore dello Slam perché ognuno, chiamato per nome dal conduttore, raccoglie un grande plauso finale e si versa un bicchiere di vino che alza verso il pubblico festante (pubblico comunque meno numeroso dei tanti poeti in gara). Sembra l’epilogo di una simpatica rimpatriata tra amici. A proposito di confraternite e di uva. A insindacabile giudizio del presentatore però il poeta che merita l’accesso alle selezioni nazionali – lo valuta dalla durata dell’applauso ricevuto – è uno smunto capellone con delle occhiaie scure da fare invidia a un panda sotto chemio, un altro pezzo grosso si direbbe, che aveva letto un brano semiserio accostando Greta Thunberg a Che Guevara, un brano che invitava a battersi per i diritti degli animali e dell’ambiente. Tutto sacrosanto, per carità. Tutto profondamente giusto.

La musica riparte subito dopo la fine dello Slam.

È musica soft rock stavolta. Pieni anni Ottanta. Sono i Toto, gli pare.

Gli si avvicina di nuovo Lanterna: gli si legge chiaro in faccia che è irritato, non tanto perché non abbia vinto, ma perché sia stato battuto da quello che lui reputa solo un attoruncolo prestato alla scrittura, un abusivo della poesia. Non un vero scrittore insomma, ma la sua incarnazione peggiore: un teatrante. Ingolla un sorso e cerca di prenderla con filosofia. Tant’è che l’arte ormai è soltanto performativa, sospira, che l’intrattenimento ha fagocitato qualsiasi altra raison d’être della letteratura. Raison d’être, ha detto proprio così. Seppure con una pronuncia tremenda.

– Che te ne è parso, Benni?

– Molto interessante.

– Se dici interessante significa così così. Come se non ti fosse davvero piaciuto. – lo prende in giro, magari per sfogare l’onta e la delusione appena vissute. – Venerdì prossimo sarai dei nostri. Portati qualcosa di tuo. Qualsiasi cosa. Come vedi ognuno legge e scrive quello che vuole, fuori dalle logiche editoriali e di mercato. E non vincono mica sempre i migliori. – lo dice alzando la voce per farsi intendere da chi sa lui. Banana fa sì con la testa, in realtà è contento che gli abbia rinnovato l’invito.

– Però qui non ti chiameremo mai Banana, sappilo. – prosegue Lanterna scherzando. – E neanche Benoit. Fa troppo aristocratico del Settecento. O troppo qualche altra cosa. Per noi sei Benni. Benni di Francia. Ti va bene? – ride.

– Perché Benoit sarebbe… Benito? – obietta, titubante.

– Sì. Ma tu non fare il cretino. Benni sta per Benedetto. Ben detto! Ottimo per un poeta. O per un novellista. C’è anche uno scrittore famoso che si chiama così. Perfetto, Benoit, hai anche il tuo motto adesso. – urla: – BENNI DI FRANCIA. – e ripete: – BEN DETTO!

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