Una messa in scena posticcia – Prologo

da "Una messa in scena posticcia"
Edizioni Efesto, 2021

Un piede avanti. Fermo, lo diresti quasi intento a prendersi una pausa di riflessione in attesa che l’altro piede, perché sempre di piedi stiamo parlando, concluda la sua parabola aerea atta a superarlo per posizionarsi un po’ più avanti. Invece no, la sua non è l’attesa placida della posizione a bandiera sul bordo della vasca da bagno, quando i due piedi si toccano per l’inevitabile incrocio e rimangono lì, a godersi la pace e il calore, l’attesa di quel piede è rabbia, sconcerto e sconforto, emozioni che quelli bravi sintetizzerebbero in stizza ma, se potessero ascoltare i pensieri di quel piede, sentirebbero un’autentica incazzatura per il vedersi superare dall’eterno, speculare rivale che ha guadagnato preziose decine di centimetri. A questo punto non resta altro che riprendersi il primato, magari sbeffeggiando il rivale imitando in tutto e per tutto la manovra grazie alla quale ha conquistato l’immeritata prima posizione.

A seconda della velocità di ripetizione di questa apparentemente semplice manovra, la maggior parte dei vocabolari chiama tutto questo camminata, camminata di buon passo, marcia, corsetta, corsa e in molti altri modi.

Sorcio e Banana stavano correndo con il diavolo alle calcagna, laddove il diavolo era momentaneamente rappresentato da diversi figuri intenzionati a far loro molto ma molto male. Tutto questo, maledicendo quella assurda credenza popolare secondo la quale fumare un pacchetto di Gauloises senza filtro al giorno mal si accompagna all’eccellenza nella corsa. Proprio l’uso, a dirla tutta, l’abuso, di quei rassicuranti cilindri di tabacco stavano causando un rallentamento della velocità di uno dei due. 

«Se non vuoi farlo per me, fallo almeno per Alice.»

«Ma ci stanno ancora seguendo?».

Sorcio spalanca i suoi larghi occhi sulla strada per meglio raccogliere ogni possibile informazione sul percorso di fuga. Scorgendo una stradina dietro l’insegna poubelle del vecchio mercato, prende per la spalla l’amico e lo sprona a un ultimo sforzo: nulla di meglio della calca turistica serale del Quartiere Latino potrà far loro da scudo.

«Arriviamo alla Mouffettard.» dice ridendo.

«Ora questa me la spieghi.» Banana avanza con andatura storta e dinoccolata, il fiato corto, i pensieri rossi di una rabbia che, lo sa bene, sarà presto smontata, distrutta e polverizzata da Sorcio. «Ci siamo… fatti… mezza Parigi a piedi… e tu ancora…»

«Shhh! Guarda, ascolta».

Una mano unta e sudaticcia copre la bocca di Banana che, normalmente, avrebbe ben più di una cosa a che ridire su quell’inaspettato quanto sgradevole contatto. In questo caso, il naturale pensiero di mordere la mano amica e tornare indietro di un paio di passi per poter meglio calcolare la traiettoria perfetta allo sputazzo che avrebbe voluto dirigere verso il viso dell’amico deve necessariamente essere messo da parte a causa di un improvviso riflesso metallico proveniente, forse, dalle mani di entrambi gli inseguitori. Suo malgrado, Banana deve anche rinunciare alla domanda che ha preso fortemente a rimbombare nella sua testa: seppur di scottante attualità, chiedere per quale motivo al momento gli sembra superfluo e vigliaccamente pericoloso. 

«Quei due coglioni hanno preso la strada per il fiume, li abbiamo seminati!» Sorcio non tenta nemmeno per un attimo di mascherare l’infantile divertimento che sta provando e parla con il tono di voce di chi ha appena vinto il primo premio a una sagra paesana. Su sette miliardi di persone, solo altre due avrebbero usato lo stesso tono dopo aver scampato un numero decisamente elevato di sberle, anche se meritate. Nessuna di queste altre due persone, però, può lasciare il proprio istituto senza permesso medico.

«Cosa cazzo ridi, idiota? Hai anche il coraggio di essere contento? Fare queste cazzate alla nostra età: noi dovremmo passare le serate con il plaid sulle gambe e un bicchiere di vino caldo al fianco, non rischiare la vita correndo per Parigi.»

«Finito?»

«No.»

«C’è altro?»

«Stronzo.» sorride. «Adesso ho finito.»

«Dovresti essere contento, amico! I mitici Sorcio e Banana ancora in azione, come ai vecchi tempi!»

«I vecchi tempi non comprendevano fughe…».

Sorcio, per tutta risposta, apre il sacchetto di carta che ha stretto e difeso durante tutta la loro sfrenata corsa parigina e porge metà del contenuto all’amico.

«Santo Dionigi, Sorcio! Croissant?!? Sto vivendo un’esperienza di premorte per due cornetti del cazzo?» ora l’incazzatura è reale e non c’è traccia di ironia nella voce di Banana. In un lampo di consapevolezza, si rende conto che un tono di voce agitato o arrabbiato non ha mai scalfito quel dannato idiota a cui sembrerebbe legato quasi fin dalla culla, per questo enfatizza l’ultima frase togliendosi il berretto dalla testa rasata e lanciandoglielo in faccia. Come se non bastasse, aggrotta la fronte, chiude leggermente gli occhi, abbassa di poco la testa e storce la bocca, seminascosta dalla barba biondastra, in quella che reputa in tutto e per tutto la sua miglior faccia da guerra.

«Erano secoli che non ti sentivo più dire Santo Dionigi… non basterebbe anche solo questo a giustificare la nostra avventura?» l’espressione torva di Banana riesce a ottenere un debole ma significativo effetto, almeno a giudicare dall’inusuale cambiamento nel tono di voce di Sorcio. Improvvisamente si è fatto serio, calmo, sereno. Le ciocche scure dei capelli sembrano addirittura aver trovato naturalmente una sistemazione adeguata e non fanno più, come al solito, da cornice a due occhi fin troppo aperti sul mondo, tanto aperti che spesso glielo mostrano in una prospettiva ben diversa da quella reale. 

«Sorcio, seriamente…» la voce non ammette repliche diverse dalla verità, ora gli anni di amicizia che li hanno resi quasi una cosa sola si sentono in pericolo, improvvisamente non ci sono più migliaia di cose in comune: anni di risate e mani tese l’uno verso l’altro sono diventati bicchieri in bilico su una mensola fissata male «…abbiamo rischiato non so bene nemmeno io cosa… per due croissant? Il tuo grande piano per riconquistare Alice, quello per cui ti serviva assolutamente il mio aiuto, era portarle la colazione? E chi cazzo erano quelli?»

«Dettagli, dettagli, ti fissi sempre sui dettagli. Lascia stare i cornetti, quello che davvero è importante, il nostro Graal, è questo.» Sorcio estrae da una tasca dei pantaloni una busta giallina, di carta rimasta rigida e ruvida nonostante la piegatura. Una busta che, da sola, significa Importante. «Adesso puoi chiamarla, chiama Alice stasera stessa e dille che torniamo a vivere a Barcellona». 

«…e cosa avresti da offrirle a Barcellona? Un ponte con vista panoramica?» chiede ironico Banana che sembra averci rimuginato per tutte quelle ore. «Oppure una meravigliosa cuccetta piena di pulci in un ricovero per indigenti? Senza contare la cosa più importante…»

«Sentiamo, quale sarebbe questa cosa?»

«La conosci mia sorella, purtroppo per me e per lei, la conosci molto bene: non tornerebbe da te per una vacanza o per sbattere ancora la testa contro un muro di fantasie. E poi, ormai, è quasi notte fonda…».

Sorcio si avvicina all’amico e gli prende la faccia con entrambe le mani, gliela stringe a fondo ma con delicatezza, fino a fargli venir fuori le labbra. Si avvicina ulteriormente. Uno dei due sta pensando Se adesso mi bacia lo riconosceranno solo dal calco dei denti. Impossibile dire chi dei due. O forse no. Ma non è questo ora il punto focale della scena. 

«Banana.»

«Dimmi.» parlare con la faccia deformata non è quanto di più facile abbia fatto in vita sua, pensa un incuriosito Banana.

«Io. Tua sorella. Me la sposo.»

«Eh?»

«Me la sposo! Diglielo, diglielo subito! Chiamala e dille che l’amore della sua vita non solo ha messo finalmente la testa a posto ma ha risolto tutti i problemi, ha abbattuto tutti gli ostacoli che si opponevano al nostro amore e me la sposo! Hai sentito Parigi? IO SPOSERÒ ALICE!» e scatta verso un lampione, tentando di riprodurre la leggiadria di Gene Kelly mentre canta sotto la pioggia e urla a pieni polmoni. «IO SPOSERÒ ALICE! E DOMANI ANDREMO A VIVERE FELICI A BARCELLONA! IO E LEI! E SAREMO…».

Una improvvisa secchiata d’acqua, proveniente da un balcone vicino, interrompe quello che, sicuramente, sarebbe stato un lungo soliloquio.

«Potevi portacela ieri, a Barcellona, così evitavi di rompere i coglioni a me all’una di notte, stronzo!»

«Ben gentile.» l’acqua è servita per spengere più di un bollore ma non il buonumore di Sorcio, che torna sorridendo a stringere la busta tra le mani.

«Amico mio, guarda che stai sbagliando tutto, al solito hai costruito chissà quale castello di stronzate e ti aspetti che io ci caschi ancora? Pensi forse che sveglierò mia sorella a quest’ora per dirle che, dopo tanto tempo, non solo vuoi riprovarci ma addirittura sposarla?»

«Esattamente. Non avrei saputo dirlo meglio.»

«Ah, dimenticavo l’andare a Barcellona. Quindi dovreste lasciare entrambi i rispettivi lavori e…».

Un lampo. 

Accompagnato da un brivido.

Seguito da una mano che colpisce una fronte.

«La busta. Qualunque cosa ci sia, non è qualcosa che dovrebbe essere tra le tue mani ma chiusa al sicuro dentro…».

Banana chiude gli occhi e si massaggia leggermente il naso nel punto in cui è più stretto, quel punto che sembra tanto duro da poter resistere a un’esplosione nucleare, mentre invece, come aveva scoperto tante volte, e tutte per colpa di Sorcio, basta un cazzotto di nemmeno tanta inaudita potenza a frantumare dolorosamente in più parti. Quando è stato svegliato dalla voce eccitata di Sorcio, stava sognando di stare per battere una punizione al limite dell’area nella finale mondiale: vedeva già i guantoni di quel dannato portiere italiano arrancare nell’aria nella vana ricerca del pallone. Mai e poi mai avrebbe pensato che, per l’ennesima volta, l’ennesima maledetta volta, il suo migliore amico avrebbe trovato il modo perfetto per mettersi (e metterlo) nei guai. Alzò la mano davanti alla bocca di Sorcio chiedendo in maniera non verbale di tacere: aveva bisogno di almeno tre secondi per capire se fossero nella merda o solo in un casino senza via d’uscita. Ogni volta che si trovava in questa situazione, provava a immaginare lo scenario peggiore che Sorcio sarebbe stato in grado di creare. Gli elementi che stavolta aveva a disposizione erano molti:

– Sorcio lavorava per una società di intermediazione immobiliare, dove svolgeva il fondamentale compito di non fare un cazzo dalla mattina alla sera, almeno a quanto diceva lo stesso Sorcio, e Banana non faticava a credergli;

– Sorcio era ancora, inspiegabilmente, innamorato di Alice. Ah, l’amore. Quello strano sentimento che trasforma i saggi in cretini e i cretini in imbecilli, gli imbecilli in perfetti idioti e tutti loro in qualcuno che si sente in grado, anzi, in dovere di compiere anche le più nefande cazzate in suo nome;

– Oggi era venerdì. Anzi, vista l’ora, sabato mattina presto.

Nessuno di questi elementi portava a qualcosa di buono. Forse l’ora, forse la tensione residua per il pericolo appena vissuto, forse quella dannata punizione che non aveva calciato, insomma, per la prima volta nella sua vita non riusciva a immaginare in che casino si fossero cacciati. 

Perché era chiaro come il sole di mezzogiorno che, anche se la responsabilità per quanto accaduto era solo ed esclusivamente di Sorcio, mai e per nulla al mondo l’avrebbe lasciato da solo nei casini. Non lo aveva mai fatto. Mai. Non avrebbe iniziato certo ora, nonostante una qualche tentazione ci fosse eccome.

«Ok, adesso puoi riprendere. Eravamo rimasti al mio dentro…».

Laddove le persone normali, vale a dire tutti gli altri abitanti del globo terracqueo, avrebbero dimenticato il discorso o, almeno, perso tutta la baldanza per l’interruzione, Sorcio riprese esattamente da dove avevano lasciato. Nessuno capì mai come diamine facesse, ma sembrava un videoregistratore a cui veniva premuto il tasto Pause: era in grado di riprendere il punto anche a distanza di ore. Ovviamente, così fece anche adesso.

«…dentro una cassaforte di quasi una tonnellata, protetta da un doppio sistema di serrature a chiavi e tre diverse combinazioni numeriche, nonché una password che viene cambiata ogni giorno dal vicepresidente della compagnia. Per non parlare del deterrente più terribile e temibile: attaccato sul frontale, proprio nel mezzo del portello di apertura, c’è un adesivo giallo fosforescente con su scritto, in caratteri neri Arial Black Vietato aprire se non autorizzati

«Hai rapinato la tua compagnia, il tuo stesso posto di lavoro?!»

Sorcio abbandona la tranquilla sicurezza finora dimostrata all’amico e torna a essere il ragazzo che Banana conosce da sempre, quello capace di mettersi nei guai chiuso da solo in una stanza vuota. Inizia ad agitare le mani, muovendole nell’aria quasi disegnasse rune magiche in grado di trasportarli in una dimensione dove le cazzate sono la moneta ufficiale e lui è l’uomo più ricco e rispettato del mondo. In realtà, sta solo prendendo tempo per trovare un modo per poter convincere, in primis sé stesso, che la cazzata appena fatta non è poi così dannatamente apocalittica come, invece, è.

«Rapinato… preso a prestito per un lasso di tempo tendente all’infinito qualcosa di non mio… ma chi può dire, davvero, cosa sia mio e cosa no? Come sarebbe possibile stabilire un concetto come la proprietà privata, come potremmo farlo noi se centinaia dei più illustri filosofi e pensatori di tutte le epoche ancora non ci sono riusciti? Non diventarmi superbo, Banana, non venire a dirmi che tu sai spiegare qualcosa su cui sono stati scritti testi universitari e tutti, dico tutti, finivano con un punto interrogativo sull’ultima pagina? Ti credi forse più furbo di loro, di tutti loro?»

«Sorcio, ti stai arrampicando sugli specchi, sento le tue unghie spezzarsi da qui».

Banana si siede sul ciglio del marciapiede, sospira pensando che non potrà avere nessuna risposta, almeno oggi. Mentre saluta mentalmente la sua vecchia e comoda vita parigina, ben sapendo che quasi sicuramente non la vedrà mai più, poggia le mani dietro di sé e si mette comodo. Vuole annusare l’aria di Parigi, la stessa aria respirata da artisti e boia, un’aria che ha carezzato teste separate anzitempo dai corpi d’appartenenza e ha riempito i polmoni di migliaia di atleti che si sono scatenati in urla di vittoria. Aria che ha gonfiato i vestiti di chissà quanti amanti infelici, traditi e delusi che hanno smesso di sperare di essere presi dalle braccia del loro amore e hanno preferito l’eterna sicurezza della Senna. Quell’aria dall’odore di merda e sangue, incenso e olio profumato, benzene e fumo di legna di pioppo, la stessa aria che alimentava la combustione delle sigarette di Toulouse-Lautrec, fumate mentre vedeva cadere, da una costruenda torre d’acciaio, i cappelli degli operai. 

Quella stessa aria che, sa bene, chissà se potrà mai tornare a respirare come prima.

«C’è qualcosa di concreto che puoi dirmi? Non ti aspetterai certo che io chiami mia sorella dicendole di cercare un vestito per le nozze, così, basandomi su una busta, vero?».

Sorcio si sistema delle invisibili pieghe del vestito, tira verso il basso l’inesistente bavero di una mai indossata giacca, quindi china il capo e, salutando Banana, si incammina verso un punto non ben precisato.

«Sorcio, dove cazzo vai?»

«Finalmente una domanda a cui vale la pena rispondere: vado a Barcellona, ho un aereo tra poche ore e sento già che sarò in ritardo. Di’ ad Alice che l’aspetto domani dove lei sa. Se le rimane più comodo, va bene anche mercoledì. Va bene, dille che io sono lì e sarò lì fino a che non la vedrò arrivare.»

«Intanto, vai in Spagna.»

«A Barcellona, per la precisione.»

«A fare cosa, non è dato sapere.»

«No. Meglio di no, per ora. Non voglio metterti nei guai.»

«Siamo appena stati inseguiti, non li chiami guai, questi?»

«Erano i due baristi del bistrot all’angolo, mica sicari della mafia.»

«Non difendevano la busta che hai rubato?»

«No. Semmai loro difendevano l’espositore dei croissant.»

«Io non metto in pericolo mia sorella facendola tornare da te, capace solo di combinare casini e metterci nei guai.»

«Non le succederà niente, fidati di me. Dille che l’amo, convincila a raggiungermi, dille che non se ne pentirà e che ora ho messo la testa a posto, proprio come voleva!»

«Ma come faccio io… E come faremo…»

«Sono pochissimi i momenti in cui la vita vale tutto.»

«Eh?! Ma cos’è questo tono da agente segreto? Da quando ti sei trasformato in Arsenio Lupin? Perdio, Sorcio! S…SORCIO! Oh, fermati.» dannata balbuzie nervosa. «Su fermati, c… cazzo! MA DOV’È CHE STIAMO ANDANDO…?!»

«Non le succederà niente. Tu seguimi. E non succederà niente neanche a noi. Siamo i mitici Sorcio e Banana. Come un tempo».

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