La donna che piange in autogrill

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Il suo amante arrivò puntuale come sempre. Allora Dimitra mise via la tavolozza e i pennelli, e coprì con un lenzuolo traspirante la tela su cui stava lavorando ormai da ore. Si guardò velocemente allo specchio e aprì il portone, lasciando socchiusa la porta d’ingresso. Le regole che si erano dati erano chiare: finché non avesse raggiunto il pianerottolo, lui doveva mostrarsi quanto più discreto possibile, per non insospettire i vicini; una volta entrato dentro casa, aveva poi l’obbligo inappuntabile di togliersi le scarpe e di stare attento all’elegante parquet. Prima di raggiungerla in camera, Maicol deviò qualche minuto in bagno. Del resto, conosceva quell’appartamento a menadito.

Dopo poco più di un’ora, l’uomo sedeva ai bordi del letto con i piedi obliqui, diremmo a papera, intento a risistemarsi il colletto della camicia per salutare, ringraziare e andarsene via. Dimitra prese una busta dal comodino e gliela porse, lui la afferrò. Poi lei ruppe per la prima volta quel lungo silenzio:

– Stasera potresti anche rimanere – disse.

– Sei seria? Hai già cambiato idea?

– Vuoi o no?

Maicol la fissò per un attimo gettandole lo sguardo dritto negli occhi, sembrò più infastidito che non incredulo. Poi le si avvicinò per baciarla, ma in modo distratto. Dimitra reagì con un gesto di stizza, ritraendosi: quel bacio significava un rifiuto.

– Ci vediamo mercoledì prossimo allora – lo congedò.

Rimasta sola, ritornò svelta al suo atelier. Aveva rimesso soltanto il reggiseno e nemmeno le mutandine, ormai disperse chissà dove tra le pieghe del letto. Sollevò il lenzuolo bianco dalla tela, si accese una sigaretta francese, e cominciò ad aspirare lenta dal bocchino. Rimase per dieci minuti così, quasi nuda, a osservare la figura disegnata davanti a sé, grattandosi prima un piede e alternando poi le unghie della mano sul retro della testa e di nuovo sulla gamba, fino ad arrivare ancora all’alluce.

Donna che piange in autogrill.

Era questo il nome che aveva pensato per quel soggetto femminile, che, nella sua intenzione originaria, doveva ricordare la protagonista di un celebre quadro di Degas, L’assenzio. Il fascino tossico della solitudine parigina raccontato dall’opera dell’impressionista era stato tradotto da Dimitra in uno spaccato disincantato della più patetica provincia romagnola. Ma la donna che piangeva con lo sguardo assente in quell’autogrill del riminese non era certo lei stessa: aveva i capelli troppo lunghi e scuri, e non portava orecchini ai lobi, né Helix colorati sulla cartilagine, era inoltre smaccatamente truccata, di un trucco greve e sin troppo volgare. Piuttosto – ora che Dimitra la osservava meglio – sembrava assomigliare, e molto, a sua madre. Non era questo il suo proposito, e non ci aveva nemmeno fatto caso nel dipingerla per tutte quelle ore. Quando aveva disegnato il primo bozzetto dell’opera, Dimitra aveva in mente la cassiera dell’“Acqua & Sapone”, la ragazza che incontrava fuori da scuola praticamente ogni mattina: le era sembrata sin da subito il prototipo incarnato di quella muta disperazione, l’esempio perfetto dell’angoscia senza nome che consuma le esistenze di ognuno, il destino di morte da cui nessuno, malgrado ogni sforzo creativo e personale, può fuggire. Ma com’era possibile che stesse ritrovando adesso, su quella tela, il volto di sua madre?

Di certo non stava recriminando per quella bizzarra e quanto inaspettata associazione, anzi, forse, Dimitra ne era anche piacevolmente sorpresa. Lo trovò quasi divertente [CONTINUA…]

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