A ognuno la sua fuga

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Il tizio lo guarda, seduto dall’altra parte del bistrot all’interno di Villa Pamphilij. Banana beve con piccole sorsate dalla sua tazza di caffè americano. Dalla radio del locale passa una canzone italiana tratteggiata da un piacevole riff di sax. Banana prova a comprenderne le parole. C’è un sole delicato, strano per il periodo caldo dell’anno, e anche se l’atmosfera non è particolarmente silenziosa, nell’aria dell’immenso giardino capitolino si respira una quiete discreta. Un cagnetto irrompe prendendosi la scena, sembra accusare qualcuno o qualcosa, nell’urgenza del suo abbaiare stridulo: nessuno lo ascolta all’interno del locale e lui si fa sentire ancora più forte mentre alcune bambine gli ronzano intorno giocando e chiamandolo Pissi-Pissi.

Banana ha posato sul tavolo le carte del lavoro, smanetta sulle applicazioni del cellulare, studia un po’ di storia dell’arte, avverte un benessere sottile ma sincero.

Roma e i romani sembrano essere particolarmente discreti questa mattina.

Soltanto quel tizio continua a guardare.

«Serve qualcosa?» vorrebbe chiedergli.

Poi continua a leggere i segreti di “Roma nascosta” in quel luogo ameno in cui i romani si rifugiano nel verde per sfuggire dai malori quotidiani della città. Roma è piena di punti di verde, – li ha contati tantissimi da quando è sbarcato in città, – purtroppo sono spesso trascurati dall’amministrazione e dai cittadini stessi, come se tutto fosse per loro sempre dovuto. Villa Pamphilij gli è stata consigliata dal suo pigmalione Drago e non è stato neppure facilissimo raggiungerla, però ammette che ne è valsa la pena. In fin dei conti non gli sono mai piaciute le cose facili: donne, relazioni, amicizie. Un’amicizia, soprattutto. Sorcio. Anche se tutto quello che gli stava accadendo dipendeva da lui, Banana a tutto vorrebbe ora pensare fuorché al suo amico brigante.

Un altro cane, fradicio, si fa spazio tra i tavolini tirato al guinzaglio dal suo padrone. Entra nel bistrot, scontrandosi col cane rumoroso di prima che, tanto per sottolineare la cosa, ricomincia ad abbaiare peggio e più forte. Non c’è Pissi-Pissi che tenga.

Banana si accende un sigaro toscano e osserva ancora una volta il cellulare, legge qualcosa riguardante i Musei Vaticani e i segreti della città eterna, cerca di immergersi in quel luogo tra quella gente vicina e straniera allo stesso tempo. Di fronte a lui ci sono due signori sulla cinquantina che parlano di tennis, di Roma e di Lazio. Di fianco una coppia con un neonato, stanno entrambi al cellulare mentre sorseggiano una fresca limonata. Una ragazza giapponese si siede, in pausa dal jogging. Una signora sfoglia un libro di politica mentre ordina un dolce di crema e amarena. E poi ci sono altre coppie e altri signori attempati. Altri cani al guinzaglio o che abbaiano al vento. E ancora quel tizio, che nuovamente sembra buttare un occhio nella sua direzione.

«Forse ci siamo visti in museo.» pensa. «Forse mi avrà riconosciuto. O magari semplicemente scambiato per qualcun altro.» Banana tira dal suo sigaro, tuffa lo sguardo in un punto di verde, fa finta di niente. «Sarà uno sgherro di Sorcio?» ma che pensiero stupido è mai questo. Ritorna a sé.

Gli piace tutto di quel momento. Tutto, tranne quel tizio.

Anche il pensiero di essere stato gabbato per chissà quale piano fantomatico non lo disturba più affatto. In fondo, ci stava pensando proprio l’altroieri sera: Sorcio gli stava donando la possibilità di vivere un’esperienza che da solo non avrebbe mai trovato il coraggio di fare. Non certo il piano segreto per cui non doveva neppure azzardarsi a domandare nulla ma tutto questo: Roma. Una città sconosciuta ma capace di restituirgli un orizzonte di pura possibilità. Banana si guarda attorno, sorride e sospira mentre tira dal suo sigaro toscano. Prende il Mac Book datogli in dotazione dal receptionist del museo e lo apre su Word: e se provasse a realizzare quel sogno infantile di scrivere qualcosa? Avrebbe potuto raccontare molto di sé. Della sua infanzia, della sua ostinazione per il calcio prima e per il rugby poi, delle sue cotte giovanili, del bullo che lo aveva costretto a cambiare scuola, di suo padre muratore, presente e assente allo stesso momento, e di sua madre: così cattolica, così ostinata e così paziente. Poteva persino raccontare della messa in scena organizzata da Sorcio qualche anno prima: del loro viaggio a Barcellona e poi in giro per l’Europa nell’abbaglio di un amore da dover riconquistare.

Banana aveva ricevuto la grazia di poter vivere una seconda vita, un’altra, del tutto priva degli obblighi e dei doveri a cui la sua storia personale lo aveva per natura destinato. Se per Parigi era sempre stato un serio impiegatuccio fra tanti, ossequioso della sua famiglia, delle troppe incombenze lavorative e di una relazione tranquilla ma ordinaria, nell’esoticità di quella Roma inesplorata e proibita poteva finalmente viversi in un modo completamente nuovo: pagato per tenere un segreto che neppure lui conosceva, gettato in luoghi meravigliosi e ameni, senza dover rendere conto praticamente a nessuno, se non al gioco sconclusionato di un amico folle ma fedele, che tutto avrebbe fatto tranne che fargli realmente del male.

Roma era la sua fuga. E Banana si stava decidendo a voler perdutamente fuggire. Almeno una volta, o fino alla fine. Perché anche in quell’indeterminatezza stava il fascino di una vita nuova.

Si sentiva come l’Arturo Bandini dei romanzi di Fante che aveva letto e tanto amato durante la sua adolescenza.

Sì, l’Italia era davvero il posto giusto in cui rinascere.

Banana fuma, beve, ordina un brunch di salmone norvegese affumicato e avocado, e comincia a scrivere qualcosa.

C’è soltanto una cosa che ancora lo lega al suo vecchio io. Doveva parlarne con Fanny, confessarle la sua voglia di fuga, quel suo mondo interiore dischiuso di fronte alla maestosità del marmo dei Fori imperiali o del Colosseo. Come avrebbe potuto mai capirlo, lei, che da anni attendeva da lui soltanto la data delle nozze? Ma in fondo, cosa c’era realmente da capire? Ogni essere umano merita una fuga.

«Quel tizio mi vorrà assolutamente dire qualcosa…» rimugina credendo di avere incrociato per l’ennesima volta il suo sguardo. Ma è uno sguardo strano, perso nel vuoto: è lo sguardo di un pollo che sembra attendere di finire in cappone.

Banana, allora, finalmente si decide, gli fa un cenno per richiamare la sua attenzione. Quello però fa finta di nulla. Banana si alza, fa due passi mentre si sgranchisce le braccia e la schiena, nota dei libri sul suo tavolino, sono di autori italiani che neppure conosce. Quindi torna indietro. Anche il tizio sta scrivendo, penna su carta. E Banana lo osserva: ogni tanto apre uno dei suoi libri e sembra copiare su carta qualcosa. Sta sbuffando, e se si guarda intorno lo fa con fare infastidito. Forse non stava davvero guardando lui, pensa, forse stava semplicemente imprecando in cerca di una qualche forma d’ispirazione. Chissà.

Anche Banana torna alla sua scrittura, scrive raccontando di Barcellona e di Sorcio, ma in realtà distoglie quasi subito l’attenzione da quel soggetto: scrive di Roma, gli viene così naturale descrivere di ciò che gli sta attorno in quel momento, del verde di Villa Pamphilij, dei cani che entrano, abbaiano ed escono dal locale. E di quello strano tizio che sta, a sua volta, scrivendo qualcosa.

Ed è qui che Banana si perde e lo guarda fisso, capendo soltanto in quel momento che il ragazzo è affetto da un più che accentuato strabismo. Non fa però in tempo a distogliere il suo sguardo che quello gli sbuffa contro risentito:

– Ma ti serve forse qualcosa, amico? – dice.

Banana sussulta in preda all’imbarazzo, diventa paonazzo in volto e risponde impacciato:

– No… È che vedo che stai scrivendo… – che detta così non solo è un’osservazione assolutamente idiota, ma è anche una cosa che non significa davvero nulla.

– Ah. – dice quello alzandosi in piedi. – Sei uno scrittore anche tu?

Ci sono istanti che possono cambiare il corso delle cose, e non sempre, necessariamente, sono attimi solenni, contraddistinti da chissà quale epos. A volte gli snodi più importanti possono anche passare dal dire un semplice Sì o un semplice No. E nel ribattere a tono a una domanda, in fondo, così innocua. Perché questo è il momento sacro dell’investitura di Banana, l’istante in cui ha risposto istintivamente:

– Sì, lo sono.

«Cosa diamine mi è venuto in mente?» pentendosi appena un secondo dopo, pur essendo, allo stesso tempo, eccitato per quella confessione. Si guarda attorno e sembra che tutti gli ospiti del bistrot, così come tutta Villa Pamphilij e tutta Roma stessero con gli occhi addosso a lui. L’universo si è fermato a osservarlo. Ma solo per un attimo.

– Prego. – gli dice quello contento, facendogli posto al suo tavolo nella sedia di fronte a lui. – Accomodati pure. Io sto scrivendo un romanzo ambientato in Messico. – grida. – Ma non mi ci raccapezzo. E tu?

Banana si alza intimidito, lo raggiunge al tavolo con il Mac Book sotto al braccio. Subito si mette seduto. Non sa che dire.

– Mi chiamo Daniele, ma mi chiamano Lanterna. – poi aggiunge: – Ma a volte Bellosguardo. – e sorride.

– Piacere, Benoit…

Una pausa inquisitoria.

– Ah, francese! Ma francese… di dove?

– Parigi.

Un’altra pausa. Un’altra lama fredda lungo la schiena.

– A Parigi ci sono stato tre volte. Due con due donne diverse. La terza da solo. È stata la volta che me la sono goduta di più. Non c’è che dire: Parigi è Parigi.

– Anche Roma e Roma però… – prova a fargli eco Banana, goffo, sembra un piccione arruffato. Quello si richiude nuovamente in un nuovo lunghissimo silenzio. E gli lancia addosso il suo sguardo senza centro, inquietante e gettato nel vuoto:

– Quale arrondissement?

– Nato nel nono. Cresciuto nel dodicesimo

– Insomma, Benoit da Bercy, cos’è che stai scrivendo? – chiede senza fare ulteriori pause.

– Pensieri… – dice poco convinto.

– Pensieri su? Politica, arte, amore? Insomma, pensieri su che cosa?

Quel modo incalzante lo turba e non poco.

– Non sono uno scrittore di professione. – si giustifica così Banana, cercando una scappatoia per il cul-de-sac in cui si è incoscientemente cacciato con un semplice Sì a cuor leggero in risposta a qualche domanda prima.

– E chi mai lo è?! – quello, però, non gli dà scampo. Quindi fa un cenno al cameriere per ordinare due caffè. E subito comincia a dire: – Io ho pubblicato finora sette libri di narrativa. Non ho mai pagato per pubblicare, se è quello che mi stai per chiedere. Anche se poi alla fine anche questo non significa nulla. Ho pubblicato con due editori indipendenti e ho venduto meno di quanto le mie pagine Social dicano. Non si riesce a fare gli scrittori in questo paese. A meno che non si è amici di amici di amici… – bofonchia qualcosa in dialetto che a Banana pare un’imprecazione piuttosto colorita. – Non so se in Francia è diverso… – si frena un attimo. Attende una risposta. Che non arriva.

Fissa Banana. O almeno così gli sembra.

– In Francia non ho pubblicato ancora nulla.

– Scrivi in italiano?

Mais non!

– Bisogna conoscere qualcuno per arrivare a certi livelli. – riprende il discorso lasciato in sospeso prima. – Altrimenti col cazzo che si finisce in libreria, meno che mai in vetrina! Ormai c’è Amazon, tutti si autopubblicano. Self-publishing, intendi? Ma io credo ancora nell’editoria tradizionale. Che ti devo dire, Benoit, anche se è tutta una mafia…

– Io scrivo solo per me.

– Ennò, baguette! – lo interrompe e ride. – Da oggi ti voglio chiamare così: Baguette. Posso? Però nessuno scrive solo per sé. Un giorno un professore di letteratura dell’Università di Harvard fece una lezione sulla scrittura ai suoi studenti: “Se il mondo finisse domani, come passereste il vostro ultimo giorno su questa terra?”. Lo sai cosa gli hanno risposto quegli studenti?

Sais pas. Scrivendo?

BAAM! Sbagliato! Agli studenti che avessero risposto in questo modo il professore avrebbe messo un bel due in pagella: non ha senso scrivere soltanto per sé. Capito che intendo, Baguette?

– Credo di sì. Però io volevo dire che non avendo ancora maturato un mio stile e una consapevolezza di quello che è per me la scrittura…

– Tutte palle. Panzane, Benoit. – lo interrompe per la seconda volta. – Si scrive e c’è sempre un motivo valido. Ed è sempre un motivo espressivo. Sennò non avrebbe senso fare la fine del Martin Eden di turno. Io, ad esempio, – non appena ritorna a parlare di sé, si impettisce e sembra addirittura cambiare il tono di voce, – io ho collaborato con una casa editrice per più di dieci anni. Nel frattempo, ho studiato medicina, perché sono figlio di medici e ho comunque la strada spianata. Ma più che toccare il cuore della gente con un bisturi… vorrei farlo con le mie parole. Anche perché mi fa abbastanza ribrezzo il sangue. Bleah! E anche il muco e tutte le mucose… – ridacchia nascondendo un’espressione disgustata.

– Quindi tu sei un medico, Daniele? Non lo avrei mai detto.

– Perché sono strabico? – ride.

– No no, che c’entra! – Banana si sente nuovamente in imbarazzo. Cerca di rimediare: – È solo perché sei qui a scrivere…

– Lo sai com’è che la vedo, Baguette? La scrittura, per me, è come una fuga. E ognuno merita la sua fuga. A ognuno la sua. – per la prima volta Banana si connette a quel tizio che gli sta parlando in maniera tanto accalorata di tutto e di niente. Anche per lui la scrittura poteva essere una fuga, in effetti aveva pensato la medesima cosa soltanto un’ora prima. – Io fin da bambino avrei dovuto essere un medico, mio padre voleva questo, mia madre non mi avrebbe perdonato nient’altro. Certo qualche “deviazione controllata” me l’avevano concessa: mi hanno fatto studiare il pianoforte e la chitarra salvo dissuadermi dal continuare. C’era sempre un emocromo, una cistifellea, una crisi insulinica di cui dover parlare. Quando però ho incontrato la scrittura, che cazzo me n’è fregato più!, non ho avuto altro che quello per la testa! Però la mia non è stata solo vanity press, intendi? Io c’ho provato sul serio. Ho pubblicato il primo romanzo a ventiquattro anni. Ho girato i locali di Roma, ho girato mezza Italia. Reading, letture… e per tre volte l’esame di anatomia! A proposito: Roma è la città peggiore per fare letteratura. Segnatelo tra i tuoi pensieri. – indica ridendo la pagina vuota del Word sul Mac Book di Banana.

– A me sembra invece una città piena di stimoli, di cultura…

– Tutta apparenza, Benoit. Tu sei francese e sarai sicuramente cinefilo: presente La grande bellezza di Sorrentino? Roma è una città morta. Morta e stramorta. Com’è morto lo spirito di chi vuole ancora fare letteratura. Umiliati dalle grandi case editrici che fanno vetrina, finiamo a fare proprio la fine di Martin Eden con il peggior rubagalline tra gli editori indipendenti. Bisogna essere allineati. E spesso neanche basta. Perché bisogna essere allineati e non lavorare mai per la qualità. Per l’amor del cielo!

– Ma in ogni caso tutto il mondo è paese. Questo è un discorso che conosco purtroppo bene. Mainstreaming, com’è che dite voi in Italia? Commerciale?

– Non è solo questione di industria culturale. Tu sei francese e saprai sicuramente di filosofia. Adorno? Horkheimer?

Banana fa una smorfia come a voler dire no.

– A Roma devi sempre conoscere qualcuno. Nel mondo della cultura. O nel mondo della politica. O nella Rai. Oppure qualche baciapile del Vaticano. Tre milioni di persone e io non ho mai conosciuto un cazzo di nessuno! – bofonchia dopodiché si perde in una risatina isterica e sconsolata. Il suo sguardo amaro, per la prima volta, sembra fissare un punto preciso.

– A Roma non esiste neanche un underground realmente libero. – riprende il discorso dopo una pausa lunga mezzo minuto. – Sei mai stato nelle bettole di San Lorenzo? Del rione Monti? Oppure a Trastevere? Hai mai partecipato a un reading di poesia in qualche locale sfigato e sperduto del Pigneto?

Banana muove il mento a destra e a sinistra facendo intendere a Daniele-Lanterna-Bellosguardo che tutto ciò di cui sta parlando, per lui, è peggio di un sotto idioma dell’arabo.

– Non hai mai sentito parlare del Pigneto? No?! Che Dio te ne scampi e liberi. Sono morto cento volte in periferia provando e credendo di poter fare cultura. Sempre sotto al mio bisturi prima o poi dovranno passare quei librai maledetti! – sogghigna luciferino. Il suo volto però assume presto l’espressione di un enorme Bleah, segno che avrà pensato al sangue. Oppure al muco. O a chissà cos’altro.

Poi cambia discorso.

– Cos’è che ci fai qui a Roma, caro Benoit? E dov’è che lavori?

– Sto in una pensione in Via dei Serpenti per ora.

– Sei un turista?

– Diciamo. O meglio: un viaggiatore. – tiene a precisare. – Ma non so per quanto mi fermo. Devo prima finire… una certa cosa. – Banana non si sbilancia, che magari quest’incontro con il medico-scrittore è tutta un’enorme trappola costruita da Sorcio per rinfacciargli il fatto di non essere nemmeno capace a mantenere un segreto.

– Intanto che sei a Roma però possiamo scrivere e ispirarci. Non si sa mai. Che ne sai tu del Messico? Tu sei francese e qualcosa del Messico sarai sicuro! – dice tra il serio e il faceto. – Questa sera partecipo a una serata di poesia performativa. C’è un locale sotterraneo a Via del Pellegrino, vicino Campo de’ Fiori. Segnati l’indirizzo. Non prima di mezzanotte. Ci si vede, Baguette!

Si alza, lascia dieci euro sul tavolo e se ne va fissando Banana dritto negli occhi. O perlomeno così gli sembra.

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