Delitto e fastidio
Due settimane. Tre.
Un mese intero.
Sorcio non l’aveva più avvertito.
L’esperienza porta però Banana a pensare che con lui tutto sia in fondo normale, e che prima o dopo qualche notifica, chiamata o e-mail sbucherà fuori dallo smartphone per aggiornarlo della cazzata di turno messa in scena dal suo amico. E difatti la consapevolezza inchioda ben presto Banana al fatto compiuto: appena quattro giorni dalla sacrosanta e consueta perdita di pazienza che Sorcio lo chiama da Roma farfugliando di una vendetta perfetta da realizzarsi il più velocemente possibile. Ma soprattutto, SI TU M’AIDER, con il suo prezioso aiuto.
– A Roma?! Perché mai sei finito a Roma? E che ci fai lì? E cosa c’entra la Monna Lisa adesso?!
Tutte domande destinate, ahimè, a rimanere inevase.
Ciò che però più lo preoccupa è stata la controdomanda finale che Sorcio gli ha lasciato poco prima di salutarsi:
– Mi raggiungi, vero?
Così, a bruciapelo.
Un ennesimo interrogativo da lasciarsi inevaso ma che comporta, per il povero Benoit, un’angoscia di gran lunga maggiore rispetto a tutte le altre domande fattosi finora. Dannazione delle dannazioni, tra l’altro gli sarebbe sempre piaciuto andare in Italia. A Roma poi… Che Sorcio gli abbia letto nel pensiero?
Così, la settimana successiva, Banana atterra all’aeroporto internazionale di Fiumicino.
La prima sensazione messo piede sul territorio italiano è quella di un inaudito caldo afoso. La seconda: la difficoltà di capire come poter raggiungere il centro della città (e poi il luogo in cui Sorcio gli aveva scritto di vedersi) con i mezzi di trasporto locali. Preso un treno per la centrale Stazione Termini e poi la metropolitana arancione per Piazzale Flaminio, Banana si ritrova ad attendere il misterioso debosciato con il sole che gli batte fitto e dritto sulla testa in un luogo sì carino ma di cui, per l’amor di Dio, non sa ancora prendere le giuste coordinate.
L’ombra di un edificio monumentale si fa ristoro per il suo corpo, ma non di certo per la sua mente che vibra nell’ansia indigesta di un incontro che tarda ad arrivare. Banana fuma, sbuffa, s’irrigidisce e s’incazza: automatismi collaudati del suo rapporto con Sorcio.
Dopo più di mezz’ora, un tizio baffuto e dalla pelle olivastra gli si avvicina recando con sé un’espressione particolarmente circospetta, Tu es Banana? domanda. Barbuglia qualcosa in un idioma che secondo quello sarebbe dovuto essere un ottimo francese e ottiene l’istintiva risposta di un punto interrogativo stampato in faccia: Banana è perplesso ma sa bene che dietro ogni tentennamento della sua vita interiore c’è sempre una stessa regia caotica.
Il tizio baffuto, che si presenta come Michele ma per gli amici “Daspo”, gli fa cenno immediato di seguirlo. Così Banana s’incammina dietro di lui, tallonandolo lungo la salita.
Insieme prendono la strada per gli antistanti giardini di Villa Borghese.
Si fermano, una decina di minuti dopo, dinanzi al chiosco di un laghetto.
– Stammi vicino. Facciamo finta di dare da mangiare alle anatre. – e gli schiaffa una bustina di semi in mano.
Banana è a dir poco straniato, vorrebbe approfondire ben più di un argomento, ma soprattutto domandare perché mai si è dovuto svegliare alle cinque del mattino, prendere un aereo e chissà quanti e quali mezzi di trasporto per ritrovarsi in un caldo mezzogiorno italiano, esattamente come uno stronzo, davanti a un laghetto del cazzo a gettare in aria cibo per pennuti. Vorrebbe chiedere pure che fine abbia fatto Sorcio e chi o che cosa rappresenti lui: Michele di Trastevere, per gli amici detto “Daspo”. Banana sa bene che tutti quei pensieri rientrerebbero a pieno titolo nella lunga lista di domande esistenziali inevase della sua vita. Perciò demorde e, semplicemente, infila la mano nella bustina, stringe una dozzina di semi all’interno del pugno e li tira dritti in acqua, agitando in aria le dita. Quindi sospira, rassegnato e malinconico.
– Sorcio sarà qui fra meno di un’ora. – mormora Daspo.
Difatti, tre bustine di semi per anatre dopo, Banana lo scorge arrivare: ha gli occhiali da sole e il mento basso, gli si avvicina lentamente mentre, diffidente, si guarda attorno. Con lui ci sono altri due tizi egualmente torvi.
– Banana, grazie per essere qui. – sussurra Sorcio scrutandosi in giro. – So di poter sempre contare su di te. – ripete mantenendo quella strana prossemica. – Continua pure a dare da mangiare alle papere. Fa’ fina di nulla. – Banana è incredulo, non ha nemmeno il tempo di domandare. In realtà neanche di respirare. Infatti, Sorcio continua: – Questi saranno i nostri compagni di avventura. – bisbiglia tenendosi addirittura una mano davanti alla bocca, come a volersi proteggere da qualcuno che sapesse leggere, chissà per quale motivo e chissà quale bislacco interesse, il suo asfittico labiale. – Michele, che hai già conosciuto, sarà il tuo pigmalione romano.
– Cosa…?
– Loro sono invece Enrico e Damiano. Non chiedermi nulla per adesso. Sappi soltanto che domani io partirò per qualche giorno, poi tornerò in Francia. Ma tu potrai lavorare all’interno dei Musei vaticani. Loro ti spiegheranno tutto. È una perfetta copertura. Dobbiamo ringraziare Enrico e Damiano per questo.
– Copertura? Musei vaticani? Ma cosa…!?
– Sì, Banana, non c’è di ché! Potrai farti una bella scorpacciata di arte finalmente. Per ora non posso dirti altro però. L’importante è che sia tutto chiaro. Allora, dimmi: è chiaro?
– Ma proprio no. Sorcio! – sbotta tutto d’un fiato. – Qui non è chiaro proprio un benemerito fatto! Ma di cosa stai parlando…?
– Shhh! Ti farai accorgere. Chiedi tutto a Michele. Ogni dubbio che avrai. Sta’ tranquillo però. Ti fidi di me, non è vero? – dice tirandosi giù gli occhiali e sorridendo in modo seduttivo. – Hai una pensione già pagata dall’organizzazione in zona Monti, in via dei Serpenti 16. Vicino al Colosseo. Immergiti pure nella movida notturna, divertiti, il giorno lavora. Ma non fare menzione di nulla. E soprattutto… non parlare mai della Gioconda.
Banana sbianca, non riesce a rispondere perché davvero non saprebbe che cosa dire. Sorcio lo squadra e annuisce per l’ultima volta, poi, con un cenno irrequieto delle dita, sembra volersi congedare.
– È tutto chiaro? – ripete.
Banana, chissà perché, questa volta risponde di sì.
Sorcio e Banana si salutano senza nemmeno salutarsi sul serio. Si guardano appena negli occhi, anzi: tracciando una linea immaginaria tra le pupille azzurre dell’uno e gli occhiali scuri dell’altro.
Sorcio, da bravo casinista qual è sempre stato, avrà pianificato alla perfezione l’ennesimo guaio epocale della sua vita. Banana, tuttavia, ci sta cascando con tutte le scarpe di nuovo. E questo non lo rende, ai nostri occhi, meno colpevole.
Cosa avrà voluto dire con Non parlare mai della Gioconda?
Banana cammina per le stradine del rione, dopo aver lasciato le sue robe per il pernotto all’interno della pensione, tra la Via Urbana e la piazza.
È sera e decine di ragazzi bivaccano seduti ai piedi di una fontana. Le forze dell’ordine, schierate con le camionette dall’altra parte della strada, controllano che tutto vada come deve. Banana prende una birra, si siede anche lui in mezzo alla gente, chiede a un tipo di accendere mentre in cuor suo sta disperatamente tentando di capire cosa dovrebbe mai fare lui in quel posto. Scrive a Fanny, le telefona e le racconta quanto può e quanto riesce, evitando però di menzionare comunque la storia della Gioconda. Si trattiene, nonostante abbia ben stampato in mente il ghigno compiaciuto della Monna Lisa da tutta la giornata. La mente umana funziona esattamente così: più non devi pensare a qualcosa e più quella cosa se ne sta lì tra i pensieri, proprio al centro dei ragionamenti, in bella vista. Il monito di Sorcio, Non parlare mai della Gioconda, è diventato per lui un condizionamento assoluto, tanto che Banana, a un certo punto della telefonata con la sua bella innamorata già incazzata, si è sentito assalito dal timore che qualche cosa potesse scappargli fuori di bocca, perciò, senza alcun motivo evidentemente razionale, si è sbrigato a interrompere ogni conversazione e a chiuderle quasi il telefono in faccia.
E così, oltre che in ansia, Banana si sente adesso anche in colpa.
Daspo lo raggiunge dopo le nove e, come a volerlo maggiormente pressare, si presenta con una t-shirt bianca raffigurante la celebre riproduzione dada della Gioconda coi baffi, quella di Marcel Duchamp.
Fuma un sigaro toscano, sorride.
– Ti va di bere qualcosa di veramente esclusivo?
– Qualcosa di italiano?
– Il whisky non è italiano. Il whisky è il whisky. Però c’è da camminare.
Banana fa di sì con il viso.
Si avviano, raggiungono un centro di spaccio sotto a dei portici e attraversano un giardino che sembra la brutta copia dei Giardini del Lussemburgo di Parigi. Brutta copia e, almeno all’apparenza, di gran lunga più pericolosa.
Daspo continua a spipacchiare un sigaro dopo l’altro, finché non si accosta a un portone, citofona e spinge con forza il maniglione.
– Ma è un appartamento privato? – chiede Banana.
– Sta’ a vedere.
Entrano.
Qualcuno chiede loro qualcosa e Daspo risponde con sicumera un altrettanto qualcosa: è un’espressione italofona che Banana non comprende a pieno, ma che sembra essere a tutti gli effetti una specie di parola d’ordine segreta. Ci sono poi un sorriso accennato, un verso gutturale e uno schiocco di dita. L’atrio si apre quindi attraverso una porticina in legno superata la quale, due grandini interrati più in basso, un locale clandestino si spalanca ai loro occhi.
Sullo sfondo un bancone illuminato a giorno e una caterva di spiriti e di alcolici da far impallidire Al Capone.
– Lui è l’amico di Sorcio. – Daspo indica Banana presentandolo a questo modo al banchista e a un tizio losco che gli si siede di fianco.
– Fagli assaggiare il whisky che sai. – dice quest’ultimo.
Il banchista esegue con fare automatico.
– Voi come state?
I tre sembrano conoscersi.
– Ma è pronto il mangialumache?
– Non sa di certo ancora tutto, ma conosce quello che c’è da sapere. – spiega Daspo, mentre a Banana viene recapitato il whisky che comunque non ha mai chiesto. – Soprattutto sa quello che deve dire e ciò su cui assolutamente bisogna tacere. – allude guardandosi arrogante la Gioconda sulla maglietta. Sembra imitarne il sorrisetto compiaciuto.
Banana ringrazia e si bagna le labbra con l’alcolico.
– In realtà non so praticamente niente. – borbotta, prova a parlare. – Ho solo seguito le indicazioni di Sorcio e sono venuto a Roma… Ed ora eccomi qua! – sembra aggiungere sconsolato. Poi butta giù quasi in un solo colpo quello che rimane nel bicchiere.
– Non ti preoccupare, l’importante è che siamo tutti dalla stessa parte. Senza colpi di testa e senza porsi troppe domande. Nelle prossime settimane ogni cosa ti sarà più chiara.
– Come settimane?! – trasale Banana. – Tempo qualche giorno e ho l’aereo di ritorno per Parigi. Io ho un lavoro e degli impegni. Ho anche una fidanzata a cui dovrei… Insomma, quello che posso fare qui è…
– Ripeto, amico, tu non ti devi preoccupare. – lo interrompe prontamente Daspo. – Sorcio sta già pensando a tutto. Avvertirà lui stesso i tuoi impegni parigini e la tua fidanzata… Abbi soltanto fiducia, questo gioco val più di una candela!
Banana sobbalza di nuovo. Si sente come preso in ostaggio. Sente per un attimo la rabbia e l’odio montare. Odia quei tizi sconosciuti e sta odiando il suo amico di tutta una vita. Odia quel posto clandestino che odora di legno bagnato e di muffa e comincia a odiare persino Roma, che lo ha accolto in maniera tanto violenta. Però quel whisky davvero no, non gli riesce proprio di odiarlo: gli ha lasciato un sapore talmente buono in bocca che continua a leccarsi le labbra in modo compiacente mentre rimugina-odia-sospira.
– Dammene un altro. – si consola.
– Uno è offerto, pennellò, il secondo te lo metto in conto. – gli fa eco il banchista che ci tiene a mettere subito le cose in chiaro seppure strascicando, per il nostro, un incomprensibile accento romano. Dopodiché riempie di nuovo il bicchierino che porge a Banana.
– Davvero ottimo. – mentre tracanna.
La serata trascorre per Banana senza che nulla gli sia spiegato concretamente. Daspo non smette di presentargli persone random e tutti quanti a turno chiedono al banchista, sempre più scocciato per questo, di offrire uno shot al loro gradito ospite francese. Il quale, cordialmente, comincia presto a declinare.
Il locale diviene una bisca per i pochi frequentatori, ma mentre Banana si chiude in un autismo di pensieri senza soluzione, Daspo partecipa a un poker organizzato all’occorrenza. Intanto che scommettono, bestemmiano e rilanciano, Banana li sente parlare e comincia a intendere che in un certo qual modo stanno parlando anche di lui.
Tre dei sette giocatori hanno cittadinanza vaticana.
Chissà come è riuscito a capirlo.
– Siamo poco più di seicento. – uno allude proprio al passaporto. – Se scoprono qualcosa non sarà difficile risalire a qualcuno di noi. – sembra preoccupato.
– Enrico e Damiano sono in prima linea. Si prenderanno loro tutta la colpa. Semmai. Fa parte del patto pure questo. – Banana non comprende a pieno l’italiano né ogni passaggio del discorso, ma ha riconosciuto i nomi dei tizi che stavano insieme a Sorcio e che avevano incontrato il pomeriggio precedente a Villa Borghese.
– No, non è più il momento di tirarsi indietro. Full di donne! E tu, cos’hai? – dice Daspo mentre scopre le sue carte, raccoglie fiche a piene mani. E sorride. – Il contenzioso sarà internazionale, bisognerà addirittura coinvolgere le alte sfere del Vaticano. Ma questa volta, statene certi, sarà un delitto perfetto.
– Bisogna però allertare tutti gli eredi.
– C’è Sorcio. Ci penserà lui. È andato qualche giorno a Créteil.
– E la signora di Varese?
– Shhh! Rimaniamo sul qui e ora. Un passo alla volta. Dobbiamo prepararlo per i palazzi vaticani. – Daspo indica con il naso Banana che da lontano lo guarda accigliato. Lui gli risponde facendogli il pollice alzato. Poi tutti si rigirano. – Domattina lo accompagneranno Enrico e Damiano, avrà il tesserino e un contratto ad hoc per girare indisturbato.
– Io l’avrei visto bene come guardia svizzera! – lo interrompe, goliardico, uno dei giocatori. Ha la voce grassa.
Tutti ridono.
– Sarà un perfetto cicerone. E poi è francese, il ché non guasta. – taglia corto Daspo mentre scruta le carte della nuova mano.
– Due.
– Tre per me.
– Sto! – dice sornione quello di prima.
– Due anche per me.
Daspo butta le sue carte sul tavolo, fa no con la testa e ordina un ultimo bicchiere.
– Banana, sei proprio sicuro che non vuoi giocare? Dimmelo quando sei stanco però, che ce ne torniamo. Fammi soltanto finire il giro.
Banana, a questo punto, non sa neppure cos’è che si dovrebbe dire. Pensa a Sorcio e ha il voltastomaco, tira pugni alle mani, mentre cerca di afferrare in che razza di casino lo ha già ficcato il suo amico stavolta. E per quanto tutto gli appare davvero assurdo ragiona sul fatto che domattina dovrà pure andare lavorare.
Ma ci sarà qualcuno in Vaticano che capirà il francese? E io cos’è che dovrò dire?
Non parlare mai della Gioconda, questo è l’importante.
Sarà un delitto perfetto, aveva sentito dire poco prima da Daspo.
Sì, va bè, ma che fastidio!