Incipit di sceneggiatore sconclusionato: padre, assassino, disperato
Quando sei un disperato e uccidi non sei un assassino. Sei soltanto un disperato che uccide. Certo, avremmo modo di discuterne se solo fossimo tutti quanti più capaci di argomentare, di sostenere anche posizioni scomode, di mettersi dalla parte del carnefice. Se fossimo un moderno Cicerone avvezzi all’arte oratoria e alla retorica. Non la retorica di oggi, non la retorica da Social Network, non la retorica da pomeriggi 5, salotti televisivi, cazzinculo e telegiornali vari.
Io, ad esempio, quando ho imbracciato il fucile non avevo ben chiaro quello che stessi facendo. Sapevo però come mi sentivo e che il petto, gli occhi e le braccia mi esplodevano di rabbia e di dolore. In realtà non imbracciavo proprio un fucile ma l’espressione “imbracciare il fucile” mi è sempre piaciuta a livello fonetico; da bambino poi dicevo “abbracciare” e la cosa si riempie per me di un significato ancora maggiore. Dovendo ora lavorare di narrativa e di fioretto mi posso permettere di usare a mio completo piacimento questa piccola versione dei fatti e concedermi di deformare la realtà. Tanto il finale non cambia.
Io ero e rimango un povero disperato. Schifoso, se vogliamo.
Lei rimane la madre di mia figlia. La madre morta di mia figlia. La madre di mia figlia morta ammazzata da uno schifoso uomo disperato.
Non l’amavo più. E almeno in questo sono sincero. Se si è almeno un po’ onesti con gli altri e con se stessi bisogna riconoscere che non si possa uccidere per amore. E anche gli assassini che invece lo fanno e si giustificano dicendo che impazzivano per un amore tradito sarebbero da chiamarsi con il loro vero nome: subumani, vigliacchi, spacciatori e consumatori della loro medesima merda emotiva con cui hanno impestato il mondo e questo Paese devastato di troppo dolore.
Io l’ho ammazzata perché la odiavo. E non la odiavo perché un tempo, un giorno di chissà quanto tempo fa (perché ormai la memoria si perde e ha cancellato per lei qualsiasi barlume di affetto passato) la amavo. Io l’ho ammazzata perché mi ha portato ad odiarla. L’ho odiata dal momento in cui sono stato odiato io stesso in una maniera ancora più subdola e pervasiva. Lei (che non ha un nome perché non merita neppure più di essere nominata) mi ha odiato e ha fatto di tutto per cancellarmi: come uomo prima, e non paga poi come padre di una bambina, infine come essere umano. Se una donna, anzi, se una persona, se un essere umano, comincia a fare una guerra deve essere in grado di prevedere se quella guerra è capace anche di vincerla, di portarla a compimento nel modo sperato. Perché altrimenti se proclami una guerra che ti porta a soccombere sei, oltre che una merda, anche un coglione o una cogliona che dir si voglia.
In guerra è tutto concesso.
Punto di domanda.
Anche il nazismo di Israele a Gaza è permesso? Ah no, quello è solo diritto di esistere. Ed esistendo mi esprimo sgozzando donne già stuprate e asfissiando di gas tossici i bambini di un popolo che un giorno, crescendo, potranno rimettere in discussione il mio autodichiarato diritto di esistere. Come Erode che proclama l’uccisione di quei pargoli che la storiografia biblica inquadra come ebrei. Oggi gli ebrei sono i nuovi nazisti, i palestinesi i nuovi ebrei, gli ucraini i nuovi partigiani, i russi i nuovi stupratori seriali. Come quei femminicisti (e non entro nel merito dello stupro che stiamo tutt* perpetrando alla nostra lingua italiana) che rivendicano la propria antica Rus’ di Kiev.
Salti mentali troppo arditi. Torniamo a noi.
In guerra è tutto concesso.
Punto esclamativo.
E se tu fai di tutto per annientare il tuo autoproclamato nemico, non puoi meravigliarti se il tuo nemico, arrivato a un certo punto, farà di tutto per autodistruggere te e tutto quello che rappresenti: una povera, inutile, disperata, nella tua disperazione, anch’essa senza nome (da non confondersi con la mia di disperazione che, al contrario, ha nome e cognome).
Sono solo un narratore, senza arte né parte. Sono uno sceneggiatore senza particolari guizzi, senza lampi di genio significativi. Ogni tanto butto giù qualche scena e cerco di essere più dettagliato possibile. Se scrivo una pagina mi sento già soddisfatto. Se ne scrivo due sento di aver fatto metà del mio dovere. Se ne scrivo cinque mi sento come Dio. Se supero le cinque e arrivo addirittura a dieci… sono pronto a distruggere tutto il mio mondo per ricominciare daccapo: come un demiurgo impazzito che sa che il più delle volte le sue parole sono soltanto merda.
In guerra tutto è concesso.
Punto e virgola, cambiamo discorso, approfondiamo la questione: tu hai fatto di tutto per cancellarmi dalla vita mia figlia e io ho fatto di tutto per rivendicare il mio diritto di esistere. Ho abbracciato il mio fucile. Abbracciato. Non imbracciato. Perché era l’unico mezzo che mi permetteva, che mi avrebbe permesso, che mi ha infine permesso, di salvare il mio amore, il mio piccolo bastardo mondo ibrido. Nauseabondo e disperato.
Ho ammazzato chi odiavo.
Ho ammazzato chi mi odiava.
Ho ammazzato per chi amavo disperatamente.
Ho ammazzato per chi non mi amerà mai più.
Per questo sono solo un disperato.
Non chiamatemi assassino.
Anzi, chiamatemi pure come cazzo di pare.
In guerra tutto è concesso.
Punto.